giovedì 31 maggio 2007

Le categorie della rivoluzione nella filosofia classica tedesca

In D. Losurdo, L'ipocondria dell'impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001, pp. 9-33. Ed. orig. in D. Losurdo (a cura di), Rivoluzione francese e filosofia classica tedesca, Urbino, QuattroVenti (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), 1993, pp. 343-358; versione fr. in A. Tosel (a cura di), Philosophies de la Révolution française. Représenations et interprétations, Paris, Vrin, 1984; versione ted. in M. Buhr (a cura di), Französische Revolution und klassische deutsche Philosophie, Berlin, Akademie, 1990, pp. 96-114;


1. Catastrofi naturali e sconvolgimenti rivoluzionari

Ci proponiamo di esaminare più che le prese di posizione specificamente politiche, le categorie concettuali con cui la filosofia classica tedesca, e più in generale la cultura tedesca del tempo, si sforza d’inquadrare e comprendere teoricamente i grandi sconvolgimenti che si verificano Oltrereno Le prime giustificazioni della Rivoluzione francese sono contrassegnate dalla sua assimilazione a una catastrofe naturale (terremoto, uragano, inondazione, ecc.). Il momento della giustificazione è evidente: interrogarsi sulla “legalità” della Rivoluzione francese -dichiara Wieland- è come chiedersi se è conforme al diritto “un terremoto in Calabria o un uragano in Giamaica”[1]. La teoria del complotto cara alla propaganda controrivoluzionaria si rivela sprovvista di senso. Peraltro il paragone in questione permette di respingere gli attacchi contro la Rivoluzione francese, senza allarmare troppo le corti tedesche: non c’era ragione di preoccuparsi in Germania d’un complotto che non ha avuto luogo neppure a Parigi; la strana catastrofe naturale che si era verificata al di là del Reno non era più inquietante delle catastrofi naturali in remote regioni del globo.
Ma se questa teoria poteva rassicurare in qualche modo le corti, non era in grado di ingannare gli ideologi più accorti della conservazione: sono i “difensori” della rivoluzione -dichiara Gentz, il brillante traduttore di Burke e futuro consigliere di Metternich- che la considerano come un evento “scaturito dalla natura delle cose e da una indomabile necessità”, sorvolando sulla questione dei suoi promotori[2]. La debolezza dell’assimilazione della rivoluzione a una catastrofe naturale era messa in luce con chiarezza. In termini analoghi si esprime Rehberg, alto funzionario dell’Hannover. La risposta che a quest’ultimo fornisce Fichte non è priva di imbarazzo: Rehberg “non vuole che si paragonino le rivoluzioni coi fenomeni della natura. Col suo permesso, in quanto fenomeni, cioè considerate non in base ai loro principii morali ma ai loro effetti nel mondo sensibile, le rivoluzioni stanno senza dubbio unicamente sotto le leggi della natura”[3]. Ma è proprio dei “principii morali” che intendevano discutere i teorici della reazione! Si assiste ad un paradosso: a ridimensionare il ruolo delle categorie morali, a richiamarsi all’oggettività del processo naturale sono i difensori della Rivoluzione francese che, in Germania, in buona parte si nutrono della filosofia kantiana.
Non si deve credere che l’assimilazione della rivoluzione ad una catastrofe naturale risponda esclusivamente ad un’esigenza di accomodamento e di prudenza dinanzi al potere: gioca invece un ruolo molto importante la difficoltà a concettualizzare gli avvenimenti senza precedenti che si andavano svolgendo in Francia. Agli occhi della pubblicistica conservatrice e reazionaria, la Rivoluzione francese commette soprattutto il crimine di stravolgere le leggi della natura: bisogna invece -dichiara Burke- che sia assolutamente rispettato il “metodo della natura”, anzi -incalza Gentz con la sua traduzione- il “divino metodo della natura”, smascherando gli “apostoli dell’uguaglianza” che mirano a rovesciare l’“ordine naturale delle cose”[4]. Ebbene, se i teorici della reazione si richiamano alla natura per consacrare la teoria della gradualità, sul versante opposto si risponde a tale celebrazione facendo notare che anche sconvolgimenti e catastrofi rientrano nel processo naturale.
I giacobini tedeschi non oltrepassano questo quadro concettuale, anche se vivono a Magonza sotto la protezione dell’esercito francese. “Il vulcano della Francia potrebbe salvare la Germania dal terremoto”[5]: in queste parole di Forster traspare chiaramente l’appello alle corti tedesche perché intraprendano le necessarie riforme se vogliono davvero evitare gli sconvolgimenti della rivoluzione. Viene indirettamente toccato il tema della responsabilità del potere dominante nello scopio di conflitti violenti. Ma qui interviene un’ulteriore difficoltà: l’immagine della catastrofe naturale, tacendo il momento della soggettività, se assolve gli intellettuali progressisti dinanzi al potere dominante dall’accusa di complotto, non è in grado di mettere in stato d’accusa, in modo pienamente persuasivo, il potere dominante dinanzi all’opinione pubblica. Kant invita le corti tedesche a non lasciare inascoltato il “grido della natura” risuonante negli sconvolgimenti d’Oltrereno[6]: Forster, lettore ed estimatore del grande filosofo, celebra nella Rivoluzione francese “un’opera della giustizia della natura”[7]: ed ecco che il paragone naturalistico, che assolve dall’accusa del complotto i promotori della rivoluzione, si carica di significati morali per esprimere un giudizio di condanna o per esercitare pressioni sulle corti. Non è facile connettere i due aspetti in un medesimo paragone.
Le rivoluzioni politiche -dichiara Wieland- sono “effetti di cause naturali, e nella maggior parte dei casi si verificano in base ad una legge naturale così necessaria che un conoscitore e un fine osservatore delle cose umane potrebbe prevedere quasi con certezza dove e quando si deve verificare qualcosa di simile. Basta studiare le condizioni della Francia prima del 1789 per rendersi conto che lo sconvolgimento verificatosi non è altro che l’effetto irresistibile di cause precedenti”[8]. E’ un tema elaborato con maggiore chiarezza da Fichte ricorrendo all’immagine dell’inondazione: “quando si impedisce il progresso dello spirito umano”, è molto probabile che si verifichi uno sconvolgimento; succede come “quando il corso della natura, che si vuol ritardare, irrompe violentemente e distrugge tutto ciò che si trova sul suo cammino e allora l’umanità si vendica dei suoi oppressori nel modo più spietato e le rivoluzioni divengono necessarie”. Di qui l’appello ai governanti tedeschi a spalancare le “dighe” prima che sia troppo tardi[9]. Come si vede, il momento della soggetività viene evocato, ma solo in riferimento alle responsabilità della classe dominante: il movimento rivoluzionario è invece assimilato ad un fiume che, una volta interrotto nel suo corso naturale, inonda con violenza la campagna circostante.

2. Oggettività e soggettività nel processo rivoluzionario

Ma non per questo sono risolti tutti gli inconvenienti. Elaborato sino al limite del virtuosismo, il paragone con una catastrofe naturale poteva anche riuscire a condannare il potere dominante in Germania, assolvendo intellettuali francesi e tedeschi dall’accusa di complotto, ma in nessun caso era in grado di fondare un giudizio compiutamente positivo della Rivoluzione francese; una catastrofe era pur sempre una catastrofe. Per sottolineare le “molteplici conseguenze negative” che sono l’inevitabile conseguenza di ogni “rivoluzione politica”, Wilhelm von Humboldt fa notare che il tranquillo germogliare del seme nella terra è sempre più fruttuoso delle eruzioni vulcaniche inevitabilmente accompagnate da lutti e da rovine[10]. Probabilmente a Humboldt risponde Fichte allorché osserva che in quelle catastrofi naturali che sono le rivoluzioni politiche non si deve vedere soltanto l’elemento della distruzione; c’è un ordine provvidenziale che “dai rottami della devastazione riedifica nuovi mondi e dalla putredine del disfacimento fa sorgere nuovi corpi viventi; che fa prosperare fiorenti vigneti sulle rovine di antichi vulcani; che fa sì che gli uomini abitino, vivano e si rallegrino sopra le tombe”[11]. Dunque, la rivoluzione è una catastrofe naturale che al tempo stesso rende più feconda la terra che sconvolge, ma sempre in base ad una dinamica meramente oggettiva.
Si possono tuttavia sorprendere delle esitazioni in Fichte. Alcuni anni più tardi, pur continuando ad affermare l’effetto liberatorio e l’ineluttabilità della rivoluzione allorché “l’oppressione ha colmato ogni misura, divenendo insopportabile, e gli oppressi recuperano in virtù della disperazione l’energia” precedentemente smarrita, La missione dell’uomo vede e denuncia nelle catastrofi naturali il “caos selvaggio della morte e della distruzione”; per di più “inondazioni, uragani e vulcani” in eruzione sono la negazione delle più profonde esigenze morali dell’uomo[12]. Il paragone della rivoluzione con una catastrofe naturale non è più in grado di esprimere il positivo che è contenuto nella rivoluzione. Alle devastazioni prive di senso delle catastrofi naturali si possono semmai assimilare le guerre incessanti che fanno a loro volta dubitare dell’ordinamento morale del mondo e della missione dell’uomo[13]. Ancora nel 1798, Friedrich Schlegel, in quel momento fervente “repubblicano”, aveva notato che, secondo “l’abituale punto di vista” la Rivoluzione francese era da considerare “come un terremoto pressocché universale, un’immensa inondazione politica”[14]. Ma, a due anni di distanza, dal testo di Fichte emerge che la metafora naturalistica ha ormai esaurito la funzione svolta a gustificazione della Rivoluzione francese e degli sconvolgimenti rivoluzionari in genere. Si assiste anzi ad un rovesciamento del suo significato politico: nel 1820, in occasione della rivoluzione in Spagna, sarà lo stesso Metternich a denunciare l’inondazione o la nuova eruzione vulcanica, in un momento in cui la Francia e i paesi circostanti erano ancora ricoperti dalla “lava della prima rivoluzione”[15].
Non era casuale che finisse col caricarsi di un significato politico di segno conservatore o reazionario l’assimilazione della natura alla storia. Sulla validità di questa assimilazione esprime forti e motivati dubbi già nel 1795 Jean Paul. Quest’ultimo, per un verso riprende il paragone in molteplici varianti: come “i lampi scaturiscono dalla vicinanza della bassa e dell’alta marea dell’etere e le tempeste dalla distribuzione disuguale dell’aria”, così in campo politico le accentuate disuguaglianze provocano infelicità e tempeste; ma, d’altro canto, proprio a causa delle “terribili disuguaglianze”, “solo una tempesta universale in tutti gli angoli della terra potrebbe concludersi con un bello stabile”. Fino a quel momento le tempeste sono destinate a continuare. Per un altro verso, però, è proprio Jean Paul a mettere in guardia in termini espliciti: “Non bisognerebbe mai accostare troppo le une alle altre le rivoluzioni morali e quelle fisische. L’intera natura non ha movimenti diversi da quelli precedenti, la sua traiettoria è il circolo [...]; solo l’uomo è suscettibile di mutamento, secondo una linea retta o a zig-zag”. In conclusione, nessun uomo, “nessun popolo, nessuna epoca risorge; nella fisica invece tutto deve ritornare”[16].
Sono accenti e temi che fanno pensare alle Lezioni sulla filosofia della storia. Jean Paul è un autore noto ad Hegel fin dai tempi di Fede e sapere che, inoltre, occupandosi approfonditamente della Missione dell’uomo, può constatare l’abbandono già da parte di Fichte dell’assimilazione della rivoluzione ad una catastrofe naturale[17].

3. Jacqueries, rivoluzioni e produzione del nuovo

Il paragone tra catastrofe naturale e sconvolgimento politico lo ritroviamo in Hegel, ma con un significato del tutto diverso. Secondo la Realphilosophie jenense, sono i contadini che, vivendo nella passività e da sempre abituati a subire tasse e tutto ciò che emana da un’autorità consolidata, allorché si ribellano, producono l’effetto di un’“inondazione” capace solamente di distruggere, o al più di depositare una “melma genericamente feconda” per i successivi sviluppi storici[18]. L’immagine del’inondazione cara al primo Fichte può gettare luce sulla natura delle jacqueries, ma non sulla natura di una vera rivoluzione politica.
L’assimilazione di avvenimenti storici a sconvolgimenti naturali comporta in Hegel una connotazione negativa: sta ad indicare tentativi forse generosi, ma tumultuosi e in ultima analisi scarsamente concludenti. Così si esprimono le Lezioni sulla storia della filosofia a proposito dei filosofi rinascimentali: “Queste notevoli apparizioni richiamano alla mente il dissolvimento, il terremoto e le eruzioni di un vulcano, che si era formato nell’interno e dava vita a nuove creazioni, però ancora selvagge e irregolari”. A Cardano, Bruno, Vanini, Campanella va riconosciuta “soggettiva energia dello spirito” e tuttavia la loro “ribellione” contro “l’esistenza di fatto” è caratterizzata da “confusione” e “intima incoerenza”. Solamente una rivolta che non riesce a produrre realmente del nuovo può essere assimilata a una catastrofe naturale; benché questi filosofi siano per la maggior parte posteriori alla Riforma, essi “appartengono ancora al Medioevo”. Al contrario la Riforma, che costituisce la prima reale rottura del Medioevo è una “grande rivoluzione”, e proprio per questo non viene paragonata ad un semplice sconvolgimento naturale[19].
Perché ci sia rivoluzione -spiega la Fenomenologia quasi ad apertura del capitolo su La libertà assoluta e il Terrore- è necessario uno “sconvolgimento reale della realtà”. L’espressione può sembrare ridondante ma serve a sottolineare l’assoluta necessità del nuovo. A partire da questo risultato, l’assimilazione della rivoluzione ad una catastrofe naturale è priva di senso: nel mondo naturale non c’è realmente produzione del nuovo, dato che il mutamento è fondamentalmente ciclico, e dunque si configura come la ripetizione dell’identico[20]. Le Lezioni sulla filosofia della storia, nel celebrare la Rivoluzione francese, oppongono la permanente stabilità del mondo naturale all’enorme novità rappresentata da questo avvenimento storico: “Da che il sole splende nel firmamento e i pianeti girano attorno ad esso, non si era ancora visto [...]”[21]. La rivoluzione politica non è dunque una semplice convulsione violenta. Per comprenderla in modo adequato, è necessario tenere presente anche il momento della soggettività. E su questo momento Hegel insiste vigorosamente: “Le grandi rivoluzioni che balzano agli occhi sono necessariamente precedute da una rivoluzione silenziosa, segreta, nello spirito dell’epoca”[22]; secondo l’Enciclopedia (§ 246 Z), “nel mondo e nelle scienze le rivoluzioni derivano dal fatto che lo spirito ha mutato le proprie categorie”; sì, “la rivoluzione francese ha avuto la sua genesi e il suo inizio nel pensiero”, nella “filosofia”[23].

4. Gradualità e salto qualitativo

Non siamo in presenza di una valutazione idealistica; la novità della formulazione hegeliana investe la visione del processo storico nel suo complesso. La categoria della gradualità domina la concezione kantiana del progresso: la libertà “si estende gradualmente” (allmählich); anche se è interrotto da intervalli di follia o di oscurantismo; l’illuminismo “si produce gradualmente” (allmählich), la stessa guerra viene gradualmente (allmählich) sentita come intollerabile. In conclusione, la storia avanza a passo lento, ma infallibile verso il progresso: l’illuminismo “deve necessariamente, a poco a poco (muss nach und nach), elevarsi fino ai troni ed esercitare un’influenza sugli stessi orientamenti del governo”[24].
A fondamento di questa centralità della categoria della gradualità c’è una “legge metafisica della continuità” (lex continuitatis metaphysica), che Kant formula in questi termini: “Tutti i mutamenti (mutationes) sono costanti o fluidi, e cioè stati opposti seguono l’uno all’altro solo mediante una serie intermedia di stati diversi”[25]. Neppure lo scoppio della Rivoluzione francese modifica sostanzialmente questa visione della storia e del mutamento. Ciò che è avvenuto in Francia dimostra la tendenza del genere umano al progresso, che peraltro continua ancora ad essere concepito in termini evoluzionistici. Il progresso non assicurerà “una qualità sempre crescente della moralità” ma un’estensione pur sempre quantitativa della “legalità”. E così, “gradualmente (allmählich) diminuirà il ricorso dei potenti alla violenza e crescerà il rispetto delle leggi, ci sarà un po’ più di beneficenza [...]”[26].
Lo schema evoluzionistico cade in crisi con Fichte che dunque per primo si sforza di assimilare sul piano teorico la grande esperienza rappresentata dalla Rivoluzione francese: lo sviluppo storico procede, “o con salti violenti o con und progresso graduale, lento, sicuro (entweder durch gewaltsame Sprünge oder durch allmähliches, langsames, aber sicheres Fortschreiten). Sia pure a costo di sacrifici, sì momentanei, ma comunque gravi e dolorosi, “a violenti sbalzi, con grandi scuotimenti e sconvolgimenti politici (durch Sprünge, durch gewaltsame Staatserschütterungen und Umwälzungen) un popolo può in un mezzo secolo avanzare più che non avrebbe fatto in dieci secoli”. Eppure, accanto a questa visione che riflette teoricamente i colossali sconvolgimenti verificatisi in Francia, continua a sopravvivere lo schema illuminisitico del “procedere gradualmente verso un sempre maggior progresso dei lumi (allmähliches Fortschreiten zur größeren Aufklärung) e così verso il miglioramento della costituzione politica”. A illustrazione di questo schema viene adottato l’esempio della Germania: “É vero che i lineamenti gotici dell’edificio sono ancora visibili quasi da ogni parte, e i nuovi edifici di completamento sono ancora ben lungi dal comporre con quello un tutto ben organico, ma almeno ci sono, e cominciano a venir abitati; e li antichi castelli da briganti cadono in rovina. Questi, se non sarà disturbata l’opera nostra, verranno sempre più (immermehr) abbandonati dagli uomini e lasciati come abitazione alle civette e ai pipistrelli, che aborriscono la luce; i nuovi edifici si ingrandiranno e finiranno per comporsi a poco a poco (allmählich) in un tutto sempre più regolare”[27]. Non è tanto importante il fatto che Fichte dichiari la sua preferenza per l’evoluzione graduale (la cosa vale evidentemente in misura ancora maggiore per Hegel); in questa sede ci interessa analizzare soprattutto la visione complessiva della storia. Per Fichte gli sconvolgimenti si verificano “quando il corso della natura, che si vuol ritardare, irrompe violentemente e distrugge tutto ciò che si trova sul suo cammino”.
E’ particolarmente significativa l’immagine del fiume: lo scorrere lento e tranquillo delle sue acque configura il corso ordinario delle cose, dello sviluppo storico; è solo il tentativo di ostacolarle e bloccarle che provoca l’inondazione. Non per l’intreccio e lo sviluppo di contraddizioni oggettive si verificano gli sconvolgimenti della rivoluzione, ma per l’intervento dell’artificiale (la cecità e la sete di dominio dei despoti) che pretende invano di opporsi a quel progressivo diffondersi dei lumi che è la natura, la quale ultima fa sentire allora la sua inesorabile vendetta. Lo schema evoluzionistico si è logorato ed è entrato on crisi, come dimostra l’emergere di una nuova categoria, quella del “salto”, e tuttavia l’esperienza storica della Rivoluzione francese non ha ancora maturato una nuova visione complessiva dello sviluppo storico.
Ciò avviene soltanto in Hegel: nella sua Logica, com’è noto, quella del salto qualitativo è una categoria centrale. L’interrompersi della gradualità non ha caratterizzato solo la Rivoluzione francese. Prendendo spunto dalla Riforma, le Lezioni sulla storia della filosofia affermano: “Pare quasi che in questi tempi lo spirito, che sino allora aveva proceduto a passo di lumaca nel suo svolgimento, aveva anzi retroceduto e s’era allontanato da sé, calzi gli stivali delle sette leghe”. In altri casi l’immagine della lumaca è sostituita da quella della talpa (un’immagine quest’ultima, com’è noto, cara a Marx). ma vediamo il testo di Hegel. Dopo aver lavorato come una talpa, lo spirito riesce finalmente a scuotere “la crosta terrestre che lo separava dal suo sole, dal suo concetto”. Ed ecco allora, “nei periodi in cui la crosta, edificio senz’anima e tarlato, crolla, e lo spirito assume l’aspetto di una nuova giovinezza, esso calza gli stivali delle sette leghe”[28]. Il mutamento storico ha ora subìto una brusca accelerazione, il lento lavorio della talpa, che lentamente ha corroso le fondamenta dell’ordine esistente, ha costituito il presupposto dei radicali sconvolgimenti. É significativo che il tema della talpa ritorna in Hegel, nell’appunto manoscritto preparato per l’ultima lezione di filosofia del diritto, per spiegare lo scoppio della Rivoluzione di Luglio dopo i lunghi anni di apparente immobilismo della Restaurazione[29].
Persino quando Hegel parla di “lentezza” (Langsamkeit) o di “pazienza” (Geduld) dello spirito universale, non scade mai in una concezione evoluzionistica: si tratta di metafore che indicano non il carattere indolore ma, al contrario, complesso e contraddittorio del processo storico, la sua trascendenza rispetto ai desideri e alle attese dell’individuo, la sua imprevidibile tortuosità. Il cammino dello spirito (Weg) è la mediazione, è il percorso più lungo (Umweg). La storia procede non in linea retta ma a zig-zag, attraverso contraddizioni e lotte che si sviluppano incessantemente: “E’ un processo (Fortgang) non nel tempo vuoto, ma infinitamente riempito e denso di lotte, non un mero processo nei concetti astratti del puro pensiero, ma che avanza a tale livello solo in quanto avanza in tutta la sua vita concreta”. E’ un punto sui cui Hegel insiste vigorosamente: l’“evoluzione spirituale” non è “un semplice movimento nel medio privo di resistenza dello spazio e del tempo, ma lavoro, attività contro l’esistente dato (gegen ein Vorhandenes) e sua trasformazione”. La “lentezza” (Langsamkeit) è dunque una metafora per indicare non la gradualità indolore, ma la complessità drammatica del processo storico; essa è accentuata “dagli apparenti regressi” (Rückschritte), dai “tempi di barbarie”. Per dare un’idea “della lentezza dell’enorme dispendio e lavoro dello spirito”, Hegel fa l’esempio della libertà. E’ ormai un dato di fatto acquisito che la libertà compete all’uomo in quanto tale, ma questo risultato presuppone gli “sconvolgimenti più colossali” (ungeheuerste Umwälzungen); non solo si tratta di un risultato storico, ma di un risultato alquanto recente, e che per affermarsi ha dovuto attraversare lotte gigantesche e un processo tortuoso e contraddittorio[30].

5. Rivoluzione e contraddizione oggettiva

Ma non è solo la categoria del salto qualitativo a rinviare all’esperienza storica della rivoluzione. Ancora più importante è la categoria della contraddizione. La Rivoluzione francese era stata particolarmente istruttiva: la vittoria conseguita sull’assolutismo monarchico e la reazione feudale aveva significato non il raggiungimento della stabilità, ma lo sviluppo di nuove e più drammatiche lotte; ad ogni tappa del processo rivoluzionario erano insorte nuove lacerazioni nel partito che pure aveva sconfitto unitariamente - così almeno sembrava- i suoi nemici. Era un fatto che si prestava a considerazioni moralistiche e ad interpretazioni del tipo: “La rivoluzione divora i propri figli come Saturno”. Sono le parole che più tardi Büchner metterà in bocca a Danton su cui già si proietta l’ombra minacciosa della condanna a morte che stanno per infliggergli i suoi ex-compagni di lotta; ma è un motivo largamente ricorrente nella propaganda controrivoluzionaria, e, infatti, esattamente negli stessi termini si esprime Gentz, consigliere di Metternich, in una lettera ad Adam Müller, uno degli ideologi della Restaurazione[31]. Ma, sul versante opposto, si presenta inficiata di moralismo sempre nel testo di Büchner la spiegazione che Robespierre fornisce delle lotte incessanti e incessantemente rinnovantesi nel campo rivoluzionario: tali lotte sono provocate da traditori o da seguaci camuffati del dispotismo[32]. Ecco invece cosa scrive la Fenomenologia:
Un partito si comprova come vincitore solo perché si scinde in due partiti; e così mostra di possedere in sé stesso il principio che prima combatteva, e di aver quindi tolta (aufgehoben) l’unilateralità nella quale prima sorgeva. L’interesse che si divideva tra lui e l’altro, cade ora interamente in lui, e dimentica l’altro partito, dacché proprio in lui stesso [cioè nel partito vincitore] trova l’antitesi (Gegensatz) che lo tiene occupato. Ma in pari tempo essa [l’antitesi] è stata innalzata nel superiore, vittorioso elemento, dove si presenta purificata. Cosicché dunque la scissione (Zwietracht) sorgente nell’uno dei partiti, pur sembrando una disgrazia, indica soltanto la sua fortuna[33].
Pur nella persistente ambiguità della categoria dell’Aufhebung, che anche qui fa capolino, il punto centrale è tuttavia chiaramente la visione della storia come sviluppo ininterrotto di contraddizioni. La categoria della contraddizione vien fatta intervenire per spiegare lo scoppio della rivoluzione. Si tratta innanzi tutto di tener presente “tutta questa contraddizione (Widerspruch) che dominava l’esistenza”, e che aveva discreditato e reso odioso le istituzioni dinanzi alla massa del popolo. Hegel descrive con grande efficacia l’implacabile dialettica oggettiva per cui diventa inevitabile lo scontro violento. Respingendo implicitamente la tesi del complotto, Hegel osserva che gli illuministi e gli intellettuali d’opposizione “non pensarono ad una rivoluzione; essi si limitarono a desiderare e chiedere miglioramenti, o meglio quelli che loro sembravano tali [...]. Quei filosofi non potevano avere che un’idea generale di quel che si doveva fare, non potevano tracciare essi il modo in cui farlo. Al governo sarebbe spettato promuovere nuove istituzioni e provvedere a concreti miglioramenti, ma esso non lo seppe fare”[34].
Hegel si chiede anche il perché delle mancate riforme e individua la causa nelle contraddizioni oggettive che attraversavano la stessa classe dominante. Nell’analisi concreta delle Lezioni sulla storia della filosofia, la dialettica hegeliana non è poi, come avrebbe detto Althusser, agli antipodi della contradiction surdeterminée. In Francia la riforma non fu “intrapresa dal governo, perché corte, clero, nobiltà, parlamento non volevano cedere i loro privilegi né per forza né in nome del diritto sussistente in sé e per sé”. Profonde trasformazioni erano necessarie, ma erano bloccate dalla resistenza e dalle contraddizioni della classe dominante: è a questo punto che il “mutamento” diventa “necessariamente violento”[35].
Proviamo ora a rileggere la Logica:
L’astratta identità con sé non è ancora vitalità, ma perché il positivo è in se stesso la negatività, perciò esso esce fuori di sé ed entra nel mutamento. Qualcosa è dunque vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione ed è propriamente questa forza, di comprendere e sostenere in sé la contraddizione. Quando invece un esistente non può nella sua determinazione positiva estendersi fino ad abbracciare in sé in pari tempo la determinazione negativa e tener ferma l’una nell’altra, non può cioè avere in lui stesso la contraddizione, allora esso non è l’unità vivente stessa, non è fondamento o principio, ma soccombe nella contraddizione[36].
Quando un ordinamento politico-sociale non riesce a controllare e a incanalare l’insopprimibile spinta al mutamento, quando non riesce a padroneggiare la negatività che circola inevitabilmente nelle sue stesse strutture, è allora condannato ad essere spazzato via. Contro “l’ipocrisia, il bacchettonismo, la tirannide”, che gridavano allo scandalo per la carica eversiva contenuta nell’illuminismo, Hegel osserva che è necessario “render giustizia” anche al “lato negativo”, diversamente non si comprenderebbe nulla della reale situazione storica[37]. Ma un significato non molto diverso ha l’osservazione contenuta nella Logica, ad un livello più alto di generalizzazione, secondo cui compito del pensiero è in primo luogo quello di cogliere le contraddizioni realmente esistenti[38]. Hegel individua dunque la genesi della rivoluzione in un complesso, in un intreccio di contraddizioni, e la decisiva importanza della Logica è nell’aver fornito gli strumenti concettuali indispensabili per la comprensione di tale fatto: gli sconvolgimenti violenti che spazzano via il vecchio mondo feudale, e, più in generale un ordinamento ormai decrepito e intollerabile, non sono il risultato di un complotto e di subdole manovre, come affermavano i teorici della controrivoluzione, ma non sono neppure il risultato della ribellione, dell’indignazione della coscienza morale contro un ordinamento considerato contrario ai diritti naturali dell’uomo, come facevano o tendevano a fare non solo i teorici, ma gli stessi protagonisti della Rivoluzione francese.
Ma di grande rilievo è soprattutto la categoria del negativo. Hegel celebra l’“immane potenza del negativo”[39] e la negatività costituisce una categoria centrale della logica, la cui genesi o la cui centralità non può essere adeguatamente compresa se non si tiene presente l’esperienza alle sue spalle della Rivoluzione francese, il momento storico più alto e più drammatico della negatività. Hegel descrive il terrore per l’appunto come il trionfo della “negatività” che “ha penetrato” tutti i momenti dell’oggetto, cioè dell’ordinamento sociale e politico esistente[40]; la sua tragedia è nell’incapacità di costruire una nuova positività. Resta comunque il fatto che la categoria della negatività è modellata sul fondamento dell’esperienza storica della Rivoluzione francese e del Terrore giacobino. A partire da questo momento, ogni visione della storia che ignori “la serietà, il dolore, la pazienza e il lavoro del negativo” “scade nell’edificazione e persino nell’insipienza”; “non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte ed in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta lacerazione (Zerrissenheit)”[41].
Ma ancora più importante è il fatto che, per Hegel, la negatività non è solo un’attività del soggetto, ma è insita in primo luogo nella stessa oggettività. Se il negativo “appare come ineguaglianza dell’Io verso l’oggetto, esso è pure l’ineguaglianza della sostanza verso se stessa. Ciò che sembra prodursi fuori di lei, ed essere un’attività contro di lei, è il proprio operare, ed essa mostra di essere essenzialmente Soggetto”[42]. Per cui le stesse trasformazioni politico-sociali non sono il risultato di un progetto meramente soggettivo: il “mutamento” (Veränderung) -dichiara la Propedeutica- “è posto dalla disuguaglianza di sé con se stesso, cioè dalle contraddizioni oggettivamente presenti nel reale; è dunque “la negazione del negativo che il qualcosa (Etwas) ha in sé”[43]. Ma ancora una volta è chiaro che la formula logica è scaturita da un’esperienza storica reale. Parlando dell’“indirizzo negativo” assunto in Francia dall’illuminismo, Hegel scrive che questo non fece altro che “distruggere quel ch’era già in se stesso distrutto”, ché “le antiche istituzioni [...] non corrispondevano più allo spirito che le aveva fatto sorgere”[44]. La vecchia società feudale e la sua ideologia erano ormai divenute un positivo ossificato, un positivo che era “il negativo della ragione”, e che quindi era sentito e costituiva realmente un’intollerabile violenza. “L’oppressione spinse all’indagine”; lo sbocco rivoluzionario era inevitabile: “Il pensiero è divenuto violenza là dove esso aveva di fronte il positivo come violenza”[45]
Anche il processo di radicalizzazione della Rivoluzione e il crollo della prima costituzione basata sulla monarchia costituzionale viene spiegato prendendo in esame la dialettica oggettiva: “Questa costituzione fu immediatamente una contraddizione (Widerspruch) intrinseca [...]. Qui doveva quindi intervenire la collisione (Kollision) della volontà soggettiva, e più tardi manifestarsi l’opposizione (Gegensatz) del convincimento”[46]. E’ vero, nella Grande Logica, alla categoria della “contraddizione” fa seguito quella del “fondamento”. Ma, a questo proposito, l’Enciclopedia chiarisce in modo esplicito: “Il fondamento, che dapprima ci è risultato essere il superamento della contraddizione, si manifesta quindi come una nuova contraddizione” (§ 121 Z).
Hegel riesce a conservare questa lucida visione dello sviluppo storico dinanzi ad avvenimenti che lo lasciano, almeno inizialmente, diffidente se non ostile. La Rivoluzione di Luglio viene spiegata con l’insorgere di una nuova “scissione” che spacca le forze che avevano realizzato il compromesso del 1814-15, compromesso sfociato nella concessione da parte del sovrano di una costituzione octroyée. Tra quelle forze esistevano già profonde contraddizioni: “Infatti, pur essendo la Charte l’insegna di tutti, e pur avendola giurata entrambe le parti, tuttavia da uno dei due lati il convincimento era cattolico, e ci si faceva un dovere di coscienza di sovvertire le istituzioni esistenti”[47]. La contraddizione prima latente esplode, di nuovo l’uno si divide in due, e si verifica un nuovo sconvolgimento rivoluzionario, un nuovo salto qualitativo.
Hegel che abbiamo visto, nel sottolineare il momento della soggettività nel processo rivoluzionario, rifiutare l’immagine della catastrofe naturale, ora, per sottolineare il peso delle contraddizioni oggettive, ricorre a sua volta ad una significativa immagine: allorché c’è il dato di fatto della “maturità della rivoluzione” (Reife zur Revolution), lo scoppio della rivoluzione appare come un’“accidentalità”, ma in realtà è come “una scintilla che cade sulla polvere da sparo”[48], e cioè su un materiale incendiario, su un intreccio di contraddizioni pronto ad esplodere.
In termini analoghi si esprime più tardi la Filosofia del diritto: “Una scintilla gettata su un mucchio di polvere da sparo costituisce un pericolo ben diverso di quando cade su un terreno sodo dove essa si perde senza lasciar traccia” (§ 319 A).
Si è visto che la Riforma costituisce agli occhi di Hegel una “grande rivoluzione”. Ebbene come spiegare questo evento? Sarebbe assurdo ricondurlo all’iniziativa di “un individuo, come qui, ad es., a Lutero: i grandi individui sono produzioni del tempo stesso”. A spiegare l’evento rivoluzionario non basta neppure un fatto accidentale, si tratti pure del traffico delle indulgenze. Infatti, “dal punto di vista complessivo l’occasione è indifferente: quando la cosa è in sé e per sé necessaria, e lo spirito è in sé pronto, essa può manifestarsi tanto in un modo quanto nell’altro”[49]. Leggiamo ora nella Logica: “Quando si hanno compiutamente tutte le condizioni di una cosa, la cosa entra nella realtà”. Ma la possibilità di una cosa non è, come nella tradizione, la sua pensabilità logica, la sua interna non-contraddittorietà, bensì una molteplicità di condizioni, “dove la contraddizione si lascia facilmente scoprire”, solo che non si tratta di “una contraddizione del confrontare”, ma di una contraddizione oggettiva[50]. Il passaggio dalla possibilità alla realtà -e ancora una volta Hegel pensa alla Rivoluzione francese e ai grandi sconvolgimenti storici- è mediato dall’accumulazione di contraddizioni in una sorta di barile di polvere, la cui esplosione può apparire accidentale solo allo sguardo superficiale.

6. Rivoluzione e malattia

Ma per meglio comprendere come le categorie della Logica concettualizzino l’esperienza storica della Rivoluzione francese, è bene prendere le mosse da un’altra immagine in voga in Germania per designare gli sconvolgimenti che si andavano verificando Oltrereno. Si tratta dell’immagine della malattia che risale a Rousseau (Il contratto sociale, II, 8) e che, per quanto riguarda la Germania, troviamo in Einsiedel, nell’allora giacobino Görres (che parla addirittura di “vaiolo”), soprattutto nel giacobino Forster: “Lo Stato che è scosso dalle rivoluzioni assomiglia a un ammalato febbricitante: una robusta forza vitale conduce la lotta contro l’elemento estraneo ch’essa deve espellere o a cui deve soccombere: crisi salutari e furiose si succedono l’un l’altra, finché la natura più forte ha il deciso sopravvento oppure l’organismo disgregato diventa preda della morte e della decomposizione”[51].
Pur giustificando la Rivoluzione francese, questa visione rischiava di far apparire la negatività come proveniente dal di fuori, come un elemento “estraneo”. E non a caso, come quella della catastrofe naturale, anche la metafora della malattia, opportunamente modificata e con decisa accentuazione del suo carattere di estraneità rispetto all’organismo, trova poi notevole diffusione tra la pubblicistica reazionaria: di “malattia politica” e di “contagioso malanno dei popoli” parla il tardo Friedrich Schlegel nel corso delle sue lezioni viennesi di Filosofia della storia e, più sbrigativamente, di “peste” o di “cancro” parla Metternich in persona[52].
Comunque, sempre per quanto riguarda gli ambienti rivoluzionari, la metafora della malattia la ritroviamo anche in Einsiedel: “Le cose politiche hanno un andamento analogo a quelle fisiche. Per un certo tempo si può arrestare il corso della natura e turbarlo con mezzi che lo rallentano; alla fine però, se non si è capaci di eliminare le cause del male, la malattia esplode. Lo stesso avviene nelle rivoluzioni religiose e politiche [...]”[53]. Almeno Forster era un autore ben noto a Hegel[54]. Si può ora meglio comprendere la polemica della Logica contro quella concezione che considera la contraddizione, “sia nella realtà, sia nella riflessione pensante, come un’accidentalità, quasi un’anomalia e un transitorio parossismo morboso”. Per Hegel, la contraddizione, lungi dal costituire “un’anomalia che si mostri qua e là”, è, invece, “il negativo della sua determinazione essenziale, il principio di ogni muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e mostrarsi della contraddizione”[55].

7. Rivoluzione, illuminismo francese e filosofia classica tedesca

E’ lo stesso Hegel a mettere in evidenza il legame tra la sua logica e la riflessione sulla Rivoluzione francese: la Prefazione alla prima edizione, che porta la data del 1812, scrive: “Lo spirito nuovo, che è sorto per la scienza non meno che per la realtà, nella logica non si è fatto ancora sentire”. Si tratta di costruire una logica all’altezza del “generale mutamento” (allgemeine Veränderung), della “completa trasformazione (gänzliche Veränderung) che si è prodotta “da circa venticinque anni”[56]. E’ la stessa datazione cui il filosofo fa ricorso a Heidelberg, per indicare “ciò che ebbe inizio, venticinque anni fa, in un regno confinante, e che allora suscitò grande eco in tutti gli spiriti”, per indicare cioè la Rivoluzione francese, quell’avvenimento decisivo che segna il punto di partenza di “questi ultimi venticinque anni” fra i più ricchi ed istruttivi della storia universale[57]. La Logica intende appunto essere la sistemazione teorica dei princìpi della Rivoluzione francese, depurati s’intende della loro “astrattezza” giacobina, e visti nella maturità conquistata nel periodo post-termidoriano.
Com’e noto, il giovane Marx mette in rilievo il fatto “enigmatico” per cui un popolo “abbassa” la “comunità politica” (politisches Gemeinwesen) a “semplice mezzo per la conservazione di questi cosiddetti diritti dell’uomo”, nel momento stesso in cui fa appello all’entusiasmo politico di massa per la difesa delle nuove istituzioni rivoluzionarie: la “prassi rivoluzionaria è in flagrante contraddizione con la sua teoria”[58].
Il rilievo di Marx ha un valore ancora più generale. Si pensi alla concezione della storia. Abbiamo visto i limiti evoluzionistici che continuano a sussistere nel pensiero degli stessi rivoluzionari tedeschi. Resta da vedere se questi limiti siano stati superati dall’altra parte del Reno. In questa sede ci limitiamo ad accennare al girondino Condorcet, autore di un abbozzo di filosofia della storia subito tradotto e celebrato in Germania. Condorcet, che scrive il suo Esquisse mentre infuriano gli sconvolgimenti rivoluzionari, dimostra tuttavia di non essere riuscito sostanzialmente a superare una visione gradualistica dello sviluppo. Il “progresso” storico è “soggetto alle stesse leggi generali che si osservano nello sviluppo individuale delle nostre facoltà, poiché esso è il risultato di questo sviluppo, considerato nello stesso tempo in un gran numero di individui riuniti in società”. Ma, una volta assimilata all’evoluzione individuale, la storia si presenta come un continuum senza contraddizioni e senza scosse: “Il risultato che ogni momento presenta dipende da quello che offrivano i momenti precedenti, e influisce su quello dei tempi che debbono seguire”. Dato che il progresso dipende fondamentalmente dalla diffusione dei lumi, esso puo essere ritardato o oggettivamente ostacolato dall’ignoranza e dai pregiudizi, può essere costretto ad affrontare delle lotte, e tuttavia non smarrisce mai del tutto il suo andamento fondamentalmente rettilineo. La resistenza dell’oscurantismo può rendere inevitabili “movimenti tremendi e rapidi” ma la regola sono “gli effetti lenti ma infallibili dei progressi”[59]. Scrivendo nel 1793, Condorcet ovviamente non poteva fare a meno di far riferimento alla rivoluzione, ma questa è interpretata come la semplice eliminazione di un ostacolo che pretende artificiosamente di imbrigliare il corso naturale delle cose. Hegel invece, che opera in un momento in cui la categoria della gradualità è ormai diventata la parola d’ordine della pubblicistica reazionaria, è costretto ad una resa dei conti con la concezione evoluzionistica della storia. Nell’Enciclopedia (§ 258 Z) troviamo questa stupefacente dichiarazione: “La gradualità è l’ultimo superficiale rifugio per poter attribuire quiete e durata alle cose”. Per il fatto che la Logica hegeliana concettualizza nelle sue categorie l’esperienza storica della Grande rivoluzione, viene celebrato da Herzen come l’algebra della rivoluzione[60] e vien altresì letta con partecipazione e passione da parte di Lenin. In Germania, dopo il fallimento della rivoluzione del ‘48, persino i fedelissimi della scuola hegeliana prendono a criticare la Logica del maestro. Essa ha il torto di conferire eccessivo rilievo alla categoria della contraddizione; ma la contraddizione -questa in sintesi l’obiezione di Rosenkranz- è la ghigliottina[61]. Nata come concettualizzazione della Rivoluzione francese, la Logica hegeliana cade in crisi in Germania quando cade in crisi la stessa immagine della Rivoluzione francese, e l’una e l’altra divengono oggetto di condanna generale per il fatto che sembrano precludere o evocare lo spettro di un’altra rivoluzione, quella sociale.


[1] C. M. Wieland, Sendschreiben an Herrn Professor Eggers in Kiel (1792), in Wieland’s Werke, Berlin s. d., vol. XXXIV, pp. 150-1.
[2] F. von Gentz, Versuch einer Widerlegung der Apologie des Herrn Makintosh, 1793, in Ausgewählte Schriften, a cura di W. Weick, Stuttgart und Leipzig 1836-38, vol. II, pp. 128-9.
[3] J. G. Fichte, Zurückforderung der Denkfreiheit von den Fürsten Europas, die sie bisher unterdrückten (1793), in Fichtes Werke, a cura di I. H. Fichte (ristampa anastatica, Berlin 1971), vol. VI, p. 27, n. (tr. it. in J. G. Fichte, La rivoluzione francese, a cura di V. E. Alfieri, II. ed. Roma-Bari 1974, p. 7).
[4] E. Burke, Reflections on the Revolution in France,(1790), in The Works of the Right Honourable Edmund Burke. A New Edition, London 1826, vol. V, p. 79 e p. 104; la traduzione di Gentz è stata nuovamente pubblicata a cura di L. Iser con introduzione di D. Henrich, Frankfurt a. M. 1967, p. 70.
[5] Lettera a Ch. F. Voss (21/12/1792), in G. Forster, Werke in vier Bänden, a cura di G. Steiner, Frankfurt a. M. 1969, vol. IV, p. 809.
[6] I. Kant, Zum ewigen Frieden, in Gesammelte Schriften (ed. dell’Accademia delle scienze), vol. VIII, p. 373, n.
[7] G. Forster, Geschichte der englischen Literatur vom Jahre 1790, (1791), in Werke in vier Bänden, cit., vol. III, p. 326.
[8] M. Wieland, Sendschreiben, cit., p. 150.
[9] J. G. Fichte, Zurückforderung, cit., p. 6 (tr. it. cit., p. 7).
[10] W. von Humboldt, Ideen zu einem Versuch die Gränzen der Wirksamkeit des Staats zu bestimmen, in Gesammelte Schriften, Berlin 1903-36 (ed. dell’Accademia delle scienze), vol. I, p. 101.
[11] J. G. Fichte, Zurückforderung, cit., p. 27 (tr. it. cit., p. 30); le considerazioni di Humboldt sul tema rivoluzione-eruzione vulcanica, Fichte potrebbe averle lette sulla “Berlinische Monatsschrift” (ottobre 1792), la rivista a cui collaboravano Kant e lo stesso Fichte (maggio 1793); cfr. U. Schulz, Die Berlinische Monatsschrift (1783-1796). Eine Biographie, Hildesheim 1969.
[12] J. G. Fichte, Die Bestimmung des Menschen, 1800, in Fichtes Werke, cit., vol. II, pp. 273 e 267.
[13] Ivi, p. 269.
[14] “Athenaeum” I, 1, S. 309-10.
[15] Riportato in H. von Treitschke, Deutsche Geschichte im neunzehnten Jahrhundert, Leipzig 1879-1894, vol. III, pp. 153-4.
[16] J. Paul, Hesperus, in Sämtliche Werke, a cura di E. Berend, Weimar 1929, vol. III, pp. 384-6, passim.
[17] G. W. F. Hegel, Jenaer Schriften, in Werke in zwanzig Bänden, a cura di E. Moldenhauer e K. M. Michel, Frankfurt a. M. 1969-79, vol. II, pp. 372 e 421-3.
[18] G. W. F. Hegel, Jenaer Realphilosophie, a cura di J. Hoffmeister, Hamburg, 1969, p. 255.
[19] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Werke, cit., vol. XX, pp. 18, 61 e 49 (tr. it. a cura di E. Codignola e G. Sanna, Firenze 1967, vol. II, 1, pp. 208-9, 238 e 247).
[20] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, a cura di G. Lasson, Hamburg 1968, pp. 133-4 (tr. it. a cura di G. Calogero, Firenze 1963, vol. I, pp. 154-6). Un’altra significativa novità è possibile constatare in Hegel rispetto alla tradizione precedente. Forster ricorre al paragone naturalistico, oltre che per le rivoluzioni, anche per le guerre, assimilate a “tempeste che purificano e rinfrescano l’aria politica” (Ansichten vom Niederrhein, von Brabant, Flandern, Holland, England und Frankreich im April, Mai und Junius 1790, in Werke in vier Bänden, cit., vol. II, p. 524). Qualcosa di analogo si può riscontrare già in Herder: le Idee per la filosofia della storia dell’umanità paragonano rivoluzioni e guerre alle “onde” e alle “tempeste” che impediscono ai fiumi e mari di trasformarsi in morta palude (in Sämtliche Werke, a cura di B. Suphan, Berlin 1877-1913, ristampa Hildesheim 1967-8, vol. XIII, p. 353 e vol. XIV, pp. 220-1). Lasciandolo cadere per la rivoluzione, Hegel riprende il paragone solo per le guerre paragonate ai “venti che proteggono dalla putrefazione mari e laghi” (Ueber die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, in Werke, cit., vol. II, p. 482; la stessa metafora ritroviamo nella Jenaer Realphilosophie, cit., p. 261, N. e nella Rechtsphilosophie, § 324). Ma in questo caso il paragone si comprende, per il fatto che gli Stati, per quanto riguarda i loro rapporti reciproci, si trovano ancora allo stato di natura, nell’ambito del quale le contese e le guerre costituiscono un fenomeno ricorrente, una sorta di residuo naturale nella storia. Ciò peraltro non toglie che, nella spiegazione dei singoli conflitti si debba partire, non da presunte leggi naturali, ma dalle “contraddizioni” e dalle “collisioni” che di volta in volta si verificano (cfr. Die Verfassung Deutschlands, in Werke, cit., vol. I, p. 54), cioè da quelle categorie che, come vedremo meglio in seguito, Hegel usa per spiegare il processo storico in generale, e lo scoppio delle rivoluzioni in particolare.
[21] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., p. 926 (tr. it. cit., lievemente modificata, vol. IV, p. 205).
[22] G. W. F. Hegel, Die Positivität der christlichen Religion, in Werke, cit., vol. I, p. 203.
[23] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., pp. 920 e 924 (tr. it. vol. IV, pp. 197 e 203).
[24] I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, achter Satz.
[25] I. Kant, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, § 14.
[26] I. Kant, Der Streit der Fakultäten, in Gesammelte Schriften, cit., vol. VII, p. 92.
[27] J. G. Fichte, Zurückforderung, cit., pp. 5-6 (tr. it. cit., pp. 6-7).
[28] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., pp. 62 e 456 (tr. it. cit., modificata, vol. III, 2, p. 2 e 411-2).
[29] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über Rechtsphilosophie, a cura di K. H. Ilting, Stuttgart-Bad Cannstatt 1973 sgg., vol. IV, p. 915.
[30] G. W. F. Hegel, Berliner Niederschrift (iniziata il 24/10/1820) dell’Einleitung alle Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Werke, cit., vol. XX, pp. 507-9.
[31] Dantons Tod: Erster Akt, ein Zimmer; lettera di F. Gentz a A. Müller (17/12/1828), in Adam Müllers Lebenszeugnisse, a cura di J. Baxa, München-Paderborn-Wien 1966, vol. II, p. 954.
[32] Dantons Tod: soprattutto Erster Akt, der Jakobiner Klub. Ma è la spiegazione effettivamente fornita da Robespierre stesso nella realtà: cfr. ad esempio il rapporto alla Convenzione del 25/12/1793.
[33] G. W. F. Hegel, Die Phänomenologie des Geistes, in Werke, cit., vol. III, p. 425 (tr. it. a cura di E. De Negri, Firenze 1963, vol. II, p. 117; si siamo in più punti discostati dalla traduzione italiana che ci sembra, per tale brano, fuorviante).
[34] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Werke cit., vol. XX, pp. 295-7 (tr. it. cit., vol. III, 2, pp. 247-9).
[35] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., pp. 925-6 (tr. it. cit., vol. IV, p. 204).
[36] G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Werke, cit., vol. VI, p. 76 (tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Roma-Bari 1978, vol. II, pp. 72-3).
[37] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Werke, cit., vol. XX, pp. 295-6 (tr. it. cit., vol. III, 2, pp. 247-8).
[38] G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Werke, cit., vol. VI, p. 78 (tr. it. cit., vol. II, p. 74).
[39] G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 36 (tr. it. cit., vol. I, p. 26)
[40] Ivi, p. 433 (tr. it. cit., vol. II, p. 126).
[41] Ivi, pp. 24 e 36 (tr. it. cit., lievemente modificata, vol. I, pp. 14 e 26).
[42] Ivi, p. 39 (tr. it. cit., vol. I, p. 29).
[43] G. W. F. Hegel, Texte zur philosophischen Propädeutik, in Werke, cit., vol. IV, p. 14.
[44] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Werke, cit., vol. XX, pp. 295-6 (tr. it. cit., vol. III, 2, pp. 247-8).
[45] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., p. 925 (tr. it. cit., vol. IV, pp. 203-4).
[46] Ivi, p. 929 (tr. it. cit., vol. IV, pp. 208-9).
[47] Ivi, p. 932 (tr. it. cit., vol. IV, p. 218).
[48] G. W. F. Hegel, Texte zur philosophischen Propädeutik, cit., p. 99
[49] G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, cit., p. 877 (tr. it. cit., vol. IV, p. 147).
[50] G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., in Werke, cit., vol. VI, pp. 209-10 (tr. it. cit., vol. II, pp. 222-3).
[51] G. Forster, Darstellung der Revolution in Mainz, 1793, in Werke in vier Bänden, cit., vol. III, pp. 658-9; per quanto riguarda Görres cfr. Die Blattern und das Revolutionsfieber, eine medizinisch-politische Parallele, in “Das rote Blatt” (1798), ora in Gesammelte Schriften, a cura di W. Schellberg, Köln 1928, vol. I, p. 164.
[52] Cfr. H. Treitschke, op. cit., vol. III, p. 153.
[53] In Von deutscher Republik 1775-1795. Texte radikaler Demokraten, a cura di J. Hermand, Frankfurt a. M. 1975, p. 343.
[54] Per quanto riguarda Forster cfr. Dokumente zu Hegels Entwicklung, a cura di J. Hoffmeister, Stuttgart 1936, pp. 217 ss.
[55] G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Werke, cit., vol. VI, pp. 75-6 (tr. it. cit., vol. II, p. 71.
[56] Ivi, vol. V, pp. 15 e 13 (tr. it. cit., vol. I, pp. 7 e 5).
[57] G. W. F. Hegel, Beurteilung der Verhandlungen in der Versammlung der Landstände des Königreichs Württemberg im Jahr 1815 und 1816, in Werke, cit., vol. IV, p. 507.
[58] K. Marx, Zur Judenfrage, in K. Marx-F. Engels, Werke, Berlin 1955 sgg., vol. I, pp. 366-7.
[59] Condorcet, Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, in Oeuvres, pubblicate da A. Condorcet O’Connor e M. F. Arago, Paris 1847 (ristampa anastatica Stuttgart-Bad Cannstatt 1968) vol. IV, pp. 12, 22-3 e 239.
[60] A. Herzen, Textes philosophiques choisis, Mosca 1950, p. 579.
[61] Nel sottolineare gli elementi negativi e le contraddizioni della società borghese, Proudhon “conosce la dialettica solo sotto forma della ghiglottina”: cfr. K. Rosenkranz, Die Selbständigkeit der deutschen Philosophie gegenüber der französischen (1852), in Neue Studien, Leipzig 1875-8, vol. II, p. 226 ; ma Rosenkranz critica lo stesso Hegel per l’“eccessivo” ruolo da lui attribuito alla categoria della contraddizione. Cfr. K. Rosenkranz, Wissenschaft der logischen Idee, Königsberg 1858-9, vol. II, p. 253 e passim; sul fallimento della rivoluzione del 1848 come presupposto della crisi della filosofia hegeliana in Germania rinviamo al nostro lavoro Tra Hegel e Bismarck. La rivoluzione del 1848 e la crisi della cultura tedesca, Roma 1983.